La centrale termoelettrica produce energia elettrica sfruttando il calore fornito dai combustibili fossili (olio combustibile derivato dal petrolio, carbone, gas naturale).
Il combustibile viene immesso in un bruciatore posto sotto una caldaia: il calore che si sviluppa riscalda l’acqua che scorre in tubi a serpentina. L’alta temperatura trasforma l’acqua in vapore surriscaldato (a circa 540 °C), che sotto forti pressioni fa ruotare le pale di una turbina collegata a un generatore di energia elettrica chiamato alternatore.
Il vapore già utilizzato viene convogliato in un condensatore, dove in appositi tubi circola acqua fredda, prelevata generalmente da corsi d’acqua vicini alla centrale. A contatto con i tubi freddi, il vapore si condensa in acqua che viene ripompata nel circuito della caldaia.
Questo tipo di centrale pone grossi problemi di inquinamento ambientale quando vengono usati combustibili con alto contenuto di zolfo (il petrolio e il carbone). Per questo motivo gli ambientalisti propongono, dove è possibile, l’uso del gas metano che non contiene zolfo, o di sfruttare l’energia del vento o del sole ad impatto zero.
Le centrali termoelettriche utilizzano fonti di energia esauribili e costose, tuttavia hanno avuto una straordinaria diffusione perché i costi di costruzione non sono elevati e la loro installazione non richiede particolari condizioni geografiche, come accade invece per le centrali idroelettriche. In alcuni paesi si stanno sperimentando piccole centrali termoelettriche alimentate dalla combustione di vegetali, appositamente coltivati con la tecnica della veloce rotazione forestale, che consente di poter disporre continuamente di legno, rami, cortecce e altri residui vegetali. Le Filippine producono piantagioni di l’ipil ipil, un albero che arriva a maturazione in soli due anni. Vicino alle piantagioni sono state costruite piccole centrali elettriche alimentate da questa fonte di energia.