In tutti gli ambiti medici la comunicazione è molto importante ed è una condizione necessaria etica e legale per migliorare la cura e motivare un paziente a seguire delle indicazioni sicure. La relazione fa quindi parte della cura e la capacità di comunicare in modo efficace è indispensabile per tutti i processi assistenziali e per il loro esito.
Un medico oltre ad avere conoscenze mediche e saper fare il tecnico scientifico deve saper essere umano instaurando un buon rapporto con il paziente. Nella relazione medico-paziente si possono avere due tipi di approcci: uno incentrato sulla malattia (cercare di scoprire la malattia e curarla) e uno incentrato sul paziente (conoscere la persona per cercare di capire la malattia e curarla). La differenza tra questi due approcci è minima ma significativa per quanto riguarda l’efficacia di cura. Il primo approccio è un modello che si è sviluppato sempre di più in Occidente in cui i medici sono concentrati sui singoli organi, sulla loro fisiologia e la loro patologia, perdendo un po’ di vista la figura del paziente, questo a causa dello svilupparsi delle malattie croniche.
Per poter essere definito “buon medico”, un sanitario deve essere in grado di trattare il paziente come una persona e non come “un altro caso”, deve essere aggiornato e capace di gestire appropriatamente il problema di salute, deve dare informazioni esaurienti sulla malattia del paziente e sul programma di esami e di terapia, deve spendere il tempo necessario a rispondere alle domande del paziente e deve spiegare chiaramente a cosa servono i medicinali prescritti e come prenderli. Non basta saper curare le malattie, ma bisogna sapersi relazionare con il malato e dare la propria disponibilità incondizionata.
Il grosso problema è che spesso il rapporto medico-paziente si risolve in una visita sbrigativa, spersonalizzata e insoddisfacente per il paziente che non si sente capito e, per il medico che vede spesso i suoi sforzi terapeutici vanificati, dalla mancanza di una giusta collaborazione da parte del paziente.
Fino a due secoli fa, la condizione era diversa, il medico era colui che assisteva il malato utilizzando i mezzi che aveva a disposizione, con l’obiettivo, più che guarirlo, di sostenerlo nella sofferenza. Quindi in passato il medico prendeva in cura totalmente il paziente instaurando un rapporto di fiducia.
Il medico di oggi, invece, utilizza la tecnologia per risolvere i problemi del paziente ed ha perso l’abilità relazionale. Nel tempo, il contatto diretto è diminuito sempre di più. Questo, banalmente, lo si nota anche nel meccanismo di auscultazione del battito cardiaco che prima avveniva per contatto diretto senza apparecchi e, successivamente, con l’utilizzo dello stetoscopio e poi del fonendoscopio, che ha permesso un allontanamento del medico dal paziente. Il contatto con il paziente, però, è fondamentale, spesso le informazioni del paziente sono più importanti dell’analisi tecnica.
Le neuroscienze ci dicono che l’interazione sociale complessa (fiducia, speranza, empatia, compassione) dove un individuo soffre e un altro cura, modula le stesse vie biochimiche e gli stessi circuiti neuronali che sono il bersaglio dei farmaci. In pratica sono i farmaci che usano le stesse vie biochimiche delle interazioni sociali, visto che queste ultime sono emerse per prime nel corso dell’evoluzione.
Il medico deve saper guardare oltre il problema, deve saperlo curare nella sua complessità, accompagnare il paziente, sostenerlo e guidarlo in una esperienza difficile e devastante come quella della malattia.
Per fare ciò il medico deve essere empatico e capace di comprendere il paziente mettendosi nei suoi panni, rendendo i pazienti più propensi a comunicare sintomi e problemi, facilitando la raccolta delle informazioni e, di conseguenza, consentendo di fare una diagnosi più accurata e una terapia migliore. Così, inoltre, si aiuta il paziente a recuperare la propria autonomia e a partecipare alla terapia, aumentandone l’efficacia.
Essere empatici significa aprire la strada ad interazioni che influenzano direttamente il recupero del paziente e rendono più accettabile l’incertezza clinica.
I pazienti preferiscono trovarsi di fronte ad un sanitario non solo ben preparato, ma anche che sia in grado di ascoltare i propri stati di animo. Da due studi condotti in ambito oncologico nel 2007 e nel 2008 si evince che, nel corso delle visite, i medici hanno risposto in modo empatico a comunicazione emotive dei pazienti solo nel 22% e nel 10% dei casi, un dato bassissimo. Questo significa che solo 2 o 1 medico su 10 sono in grado di comunicare correttamente ed entrare in empatia con il paziente.
Una buona comunicazione va a vantaggio di entrambe le parti, essendo associata ad una migliore compliance (l’aderenza dei pazienti ai trattamenti prescritti), a una riduzione delle denunce contro i medici per malpractice (inefficienze, negligenze, errori), e a una riduzione dello stress professionale dei medici (burnout).
Oggi comunicare in modo empatico, tenendo conto delle preoccupazioni e dei sentimenti dei pazienti, è ormai diventato necessario per una buona pratica clinica, bisogna però convincersi che è possibile imparare ad essere empatici e saper comunicare.