L’efficacia di un farmaco non dipende solo dalle sue proprietà farmacologiche, come ad esempio la capacità di agire come β-bloccante, inibitore della pompa protonica o modulatore della ricaptazione dei neurotrasmettitori. Altri fattori, spesso meno tangibili ma altrettanto rilevanti, possono influenzare la risposta del paziente. Tra questi troviamo:

  1. le caratteristiche fisiche del farmaco, quali gusto, forma, colore, nome e confezionamento;
  2. le caratteristiche del paziente, come età, esperienza personale, livello di istruzione, personalità, ambiente socio-culturale;
  3. le caratteristiche del medico, inclusi personalità, età, professionalità, autorevolezza e atteggiamento nei confronti del paziente;
  4. il contesto della somministrazione, che può variare dallo studio medico al pronto soccorso, dalla casa del paziente alla corsia d’ospedale.

Mentre le proprietà farmacologiche sono specifiche, ben studiate e definite, questi altri fattori sono più variabili, aspecifici e difficili da controllare. Eppure, si sa da tempo che essi possono influenzare significativamente l’esito di una terapia. I medici, spesso in modo consapevole, utilizzano questi elementi per amplificare l’efficacia di un trattamento farmacologico. Questo fenomeno è noto come effetto placebo.

Questi fattori possono modulare l’effetto clinico di una sostanza sia in senso positivo che negativo.

Che cos’è il placebo

La definizione di placebo è stata oggetto di numerosi dibattiti. Una descrizione semplice è che il placebo è una preparazione priva di principi attivi con riconosciuto valore terapeutico, somministrata al paziente per indurre l’idea che stia ricevendo un farmaco efficace.

Il termine “placebo” deriva dal latino, futuro del verbo placere (“piacerò”), e ha un’origine curiosa. Si pensa derivi dall’ultimo versetto del Salmo 114, utilizzato nelle preghiere per i defunti, che recita: “Placebo Domino in regione vivorum” (“Piacerò al Signore nella terra dei viventi”).

L’interesse verso il placebo è cresciuto negli ultimi anni, poiché è spesso usato nei trial clinici per confrontare l’efficacia di un nuovo trattamento rispetto a una condizione di controllo. Questi studi hanno prodotto molte informazioni sui meccanismi biologici sottostanti al placebo, stimolando ulteriori ricerche dedicate.

Effetto placebo ed effetto nocebo

L’insieme delle influenze non farmacologiche sull’efficacia di un trattamento è noto come effetto placebo (quando positivo) o effetto nocebo (quando negativo).

Ma quanto è reale l’effetto placebo e quanto incide? Uno dei primi studi scientifici sul tema è stato condotto da Beecher, che osservò una risposta placebo nel 30% dei soggetti trattati con un analgesico. Da allora, numerose ricerche hanno confermato che almeno una persona su tre risponde al placebo e che una parte significativa degli effetti terapeutici di un farmaco, fino ad un terzo, può essere attribuita all’effetto placebo.

La risposta al placebo è variabile: in trial clinici, il tasso di risposta positiva oscilla tra il 5% e il 65%, con una maggiore incidenza in condizioni in cui il sistema nervoso è particolarmente coinvolto, come dolore, depressione, morbo di Parkinson e ulcera peptica. Tuttavia, considerando che il sistema nervoso influenza anche il sistema immunitario, neuroendocrino e cardiovascolare, un effetto placebo può manifestarsi in molte altre patologie.

L’effetto placebo, quindi, non è solo un fenomeno psicologico, ma un potente strumento che riflette l’interazione complessa tra mente, corpo e contesto terapeutico.

Come si studia l’effetto placebo

L’effetto placebo in una specifica patologia viene analizzato, negli studi clinici controllati, attraverso l’uso di una preparazione che, pur avendo un aspetto e proprietà fisiche identiche a quelle di un farmaco, non contiene principi attivi. Questo preparato, noto come placebo, è utilizzato per confrontare i suoi effetti con quelli di un farmaco attivo o con l’assenza di trattamento. L’obiettivo è valutare le cosiddette proprietà “farmacologiche” delle condizioni di contorno, i cui risultati sono indicativi di queste specifiche situazioni.

Diversi fattori possono influenzare gli effetti del placebo, come il contesto di somministrazione (ospedale, casa o ambulatorio medico), la modalità di somministrazione (orale o sottocutanea), la frequenza delle somministrazioni, l’età del paziente (adolescenti rispetto ad adulti), e il contesto culturale (maggiore incidenza in Europa rispetto agli Stati Uniti). Anche la personalità del paziente gioca un ruolo cruciale: persone ottimiste tendono a sperimentare maggiormente l’effetto placebo, mentre i pessimisti sono più suscettibili all’effetto nocebo.

Proprietà biologiche di placebo e nocebo

Un mito da sfatare è che l’effetto placebo sia irrilevante o puramente psicologico, senza reali implicazioni biologiche. Alcuni esperimenti dimostrano il contrario. Per esempio, in studi sulla caffeina, i partecipanti informati di aver assunto caffeina mostravano gli effetti tipici della sostanza (aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa). Tuttavia, coloro che avevano ricevuto caffeina ma pensavano fosse placebo non manifestavano tali effetti. Risultati analoghi si riscontrano con la morfina, che risulta meno efficace se il paziente crede di assumere un placebo.

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Nell’ambito dell’anestesia, è stato dimostrato che il placebo può indurre analgesia nel 39% dei soggetti, un effetto completamente antagonizzato dal naloxone, suggerendo l’attivazione del sistema oppioide endogeno. Questo fenomeno è attribuibile a meccanismi di aspettativa e condizionamento. Ad esempio, se un paziente è stato condizionato a rispondere agli antinfiammatori non steroidei, l’efficacia del naloxone nel bloccare l’analgesia da placebo è ridotta.

Le azioni del placebo si svolgono principalmente a livello del sistema nervoso centrale. Studi di imaging hanno mostrato che il placebo attiva aree limbiche coinvolte nel sistema di ricompensa, come il cingolo rostrale anteriore, le cortecce prefrontali e orbito-frontali, l’insula, il nucleo accumbens, l’amigdala, il talamo mediale e l’area grigia periacqueduttale. In queste aree, neurotrasmettitori come dopamina, endorfine e colecistochinine giocano un ruolo chiave. Tali cambiamenti, osservabili anche a livello molecolare, includono la modifica del numero di recettori oppioidi di tipo μ e di recettori dopaminergici D2-D3, come dimostrato in pazienti con morbo di Parkinson trattati con placebo.

Gli effetti biologici del placebo sono specifici, e anche in una stessa patologia, diverse tipologie di placebo possono indurre effetti biologici e clinici differenti per intensità e modalità d’azione. Analogamente, l’effetto nocebo, opposto a quello placebo, è mediato dall’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e del circuito colecistochininico pro-nocicettivo. Questo effetto spiega, ad esempio, reazioni tossiche indotte da placebo in pazienti consapevoli di possibili effetti collaterali.

Conclusione

Numerose evidenze dimostrano che placebo e nocebo producono modificazioni biochimiche e funzionali specifiche in aree del sistema nervoso centrale responsabili di funzioni cruciali per l’omeostasi. Tali modificazioni, simili a quelle indotte da farmaci specifici, possono avere effetti clinici duraturi, confermando la rilevanza biologica di questi fenomeni sia in condizioni fisiologiche che patologiche.

La ricerca sul placebo ha subito un’accelerazione da quando è diventato uno strumento cruciale per la sperimentazione clinica. Nella valutazione di nuovi farmaci o di nuove indicazioni per farmaci esistenti, è essenziale distinguere tra gli effetti terapeutici reali e quelli attribuibili al placebo.

Nei protocolli sperimentali, i pazienti vengono generalmente suddivisi in due gruppi: uno riceve il farmaco, l’altro il placebo. Questo approccio è particolarmente utile in condizioni dove non esistono terapie consolidate, la sintomatologia è variabile o le possibilità di guarigione spontanea sono elevate. Tuttavia, in alcuni casi, l’aspettativa di un trattamento può generare un effetto placebo così potente da mascherare gli effetti reali del farmaco. Ad esempio, si è osservato che l’attesa di sollievo dal dolore può indurre cambiamenti biologici simili a quelli prodotti dagli oppioidi.

Per affrontare queste problematiche, sono stati sviluppati nuovi paradigmi sperimentali, come l’“open-hidden paradigm”, in cui il paziente ignora se sta ricevendo un farmaco. Sebbene questo modello presenti questioni etiche significative, può essere utile per approfondire i meccanismi del placebo.

Aspetti etici dell’uso del placebo

L’impiego del placebo solleva rilevanti dilemmi etici, poiché implica l’assegnazione di alcuni pazienti a un trattamento potenzialmente inefficace. La valutazione etica deve considerare fattori come l’assenza di terapie efficaci, la sicurezza di sospendere temporaneamente i trattamenti attivi, gli eventuali disagi per i pazienti e la gravità della malattia.

Ad esempio, sottoporre un paziente a iniezioni giornaliere per mesi, come nel caso della sperimentazione di nuove insuline, potrebbe risultare gravoso. Inoltre, è necessario interrogarsi sull’obiettivo della sperimentazione: è finalizzata a migliorare significativamente le condizioni dei pazienti o a perseguire interessi prevalentemente commerciali? Nel bilanciamento tra il disagio per i pazienti e i benefici futuri, ogni protocollo che includa il placebo deve essere approvato dal Comitato Etico e chiaramente esplicitato nel consenso informato.

Il placebo nella pratica medica

L’effetto placebo è stato da sempre un’arma terapeutica importante. In passato, era spesso l’unica risorsa disponibile, basandosi sul principio del “vix medicatrix naturae”. Il rapporto di fiducia tra medico e paziente gioca un ruolo fondamentale nell’efficacia del placebo, come accade nelle terapie alternative o complementari. In questi casi, il farmaco diventa il veicolo della sicurezza che il medico trasmette al paziente, amplificando l’effetto placebo attraverso un approccio psicologico adeguato.

L’utilizzo consapevole del placebo non è un inganno, ma una strategia terapeutica che considera la complessità della persona, andando oltre la semplice interazione tra farmaco e patologia. In una società fortemente medicalizzata, un uso oculato del placebo può rappresentare un intervento efficace, privo di effetti farmacologici o tossici.

Recenti studi hanno esplorato l’uso di placebo dichiarati, in cui i pazienti vengono consapevolmente invitati ad assumerli al posto del farmaco specifico. I risultati preliminari sono promettenti e potrebbero aprire nuove strade per un utilizzo terapeutico del placebo. Se confermati, tali approcci potrebbero rivoluzionare il ruolo del placebo nella medicina moderna.

Fonte: Farmacologia generale e molecolare.

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Di Raffo Coco

Ciao a tutti, mi chiamo Raffaele Cocomazzi e sono il cofondatore di BMScience. Sono appassionato di Scienza, Medicina, Chimica e Tecnologia. Laureato in Medicina e Chirurgia presso l'Università degli studi di Foggia e attualmente MFS in Medicina Nucleare presso l'Alma Mater Studiorum (Università di Bologna). Se ti piacciono i miei contenuti supportaci con una donazione Paypal.